Mi presento
Ciao a tutti,
mi chiamo Marco, ho 33 anni e da dodici anni ho una “compagna d’avventure”, la Sclerosi Multipla.
Ecco, di solito quando una persona deve parlare della sua convivenza con la Sclerosi Multipla inizia così, io invece ho cercato di non farlo mai.
Nonostante sia passato tanto tempo dalla diagnosi non dimenticherò mai le parole del medico:
«Marco tu sei militare, devi combattere, per sempre..»
Questa è una frase che tengo stampata a fuoco nel cervello.
La mia storia inizia con un sogno, quello dell’Esercito Italiano, decisi infatti di arruolarmi come vfp1 subito dopo la maturità, a 19 anni, e dopo aver vinto nel marzo del 2009 il concorso come vfp4 (ferma quadriennale) fui trasferito a 800km da casa, a Solbiate Olona (Varese) al Reggimento di Supporto Tattico e Logistico del Comando Nato NRDC-ITA.
È lì che per la prima volta la Sclerosi Multipla si è fatta viva, all’età di 23 anni.
Dopo poco tempo dall’inizio della mia nuova avventura (per la precisione dopo un mese esatto, nel giorno del mio onomastico, il 25 aprile) iniziarono a manifestarsi i primi sintomi; dopo un picchetto il mio bicipite destro rimase in contrazione per circa dieci giorni ma non diedi peso a quel fastidio, pensando fosse correlato al “present at arm”.
Intanto il tempo passava ed io continuavo la mia routine militare, lavoro ed allenamento tutti i giorni.
Fu proprio durante una serie di piegamenti e addominali che tutto il lato destro del corpo iniziò ad intorpidirsi, dalla testa al piede.
Decisi allora di fare ritorno a casa per sostenere una visita medica con un fisioterapista, che (per fortuna) riuscì a capire che qualcosa non andava, consigliandomi di fare una risonanza al cervello.
All’inizio pensai fosse inutile e che non c’entrasse nulla con il mio caso, ma arrivato il risultato dovetti ricredermi: “sospetta malattia demielinizzante” (“ed ora che c***o è?” pensai)
Dopo un paio di settimane mi ricoverarono all’Ospedale Carlo Besta di Milano per l’ennesima risonanza magnetica al cervello, ma stavolta con il mezzo di contrasto ed una rachicentesi (puntura nella zona lombare per analizzare il liquor cerebrale); è (ed uso il presente perché per me ancora è!) il 5 giugno del 2009, giorno in cui il dottore emise la sentenza:
«Marco tu sei militare, devi combattere, per sempre, perché hai delle placche al cervello che non si possono togliere.»
Esclamai: «Ok!»
(altro ché ice-cube challenge, fu una vera doccia fredda).
Per un po’ mi venne da piangere, ma la mia premura era ritornare in caserma.
L’ennesima doccia fredda fu sapere che se l’esercito avesse scoperto la diagnosi non avrei potuto continuare il servizio e mi avrebbe messo in convalescenza fino alla ripresa..
ma dalla Sclerosi Multipla non ci si riprende, non si guarisce, ciò nonostante provai comunque a continuare ad essere un militare.
Dopo un anno dalla diagnosi, nel 2010: la mia Sclerosi Multipla si rifece viva, impedendomi di marciare…
un giorno recandomi a fare un concorso all’improvviso non riuscii più a camminare; il mio unico desiderio era ritornare a casa, tra le espressioni stranite delle persone che mi vedevano camminare (pensavano “Ma questo come cammina?”).
Andai da un allievo del medico che mi teneva in cura, che iniziò a visitarmi da fuori il suo studio proprio perché non riuscivo più a camminare;
per riprendere la mobilità dovetti sottopormi ad un mese di cortisonici… non sapevo ancora quali potessero essere i fastidi causati dalla Sclerosi.
Fu allora che pensai: “OK! Non vuoi che io sia Militare, ma di certo non mi fermerai più”.
Così mi prosciolsi dalla ferma e ritornai a casa;
dopo circa 11 anni, da quella decisione non passa giorno che non pensi al mio vecchio lavoro di militare… più che lavoro per me era passione.
Da allora ho cambiato diverse terapie, alcune hanno anche comportato diversi effetti collaterali…
addirittura per un periodo ho perso la vista per una neurite ottica, ma fortunatamente ora ho superato questo inconveniente.
Oggi la mia cura consiste in una flebo al mese, questa routine mi ha però comportato la positività al JVC, quindi ogni quattro mesi mi tocca una risonanza perché nonostante la SM si è stabilizzata dal 2013, controllo che questo virus JVC non combini casini e non mi faccia contrarre la PML.
Quindi tra una flebo e l’altra e tra una risonanza e l’altra, come promisi nel 2010, ho fatto in modo che la Sclerosi Multipla non mi fermasse, ma che mi accompagnasse silenziosamente.
Le Spartan Race e la voglia di rivalsa
Decisi allora di allenarmi in palestra e di affrontare la patologia a viso aperto; i risultati avuti furono incoraggianti, tanto che nessuna delle persone a cui raccontai la mia storia credeva fosse vera!
Conobbi una ragazza in palestra, non solo un’allenatrice, ma molto di più; mi trasmise la voglia di non mollare mai ed un motto imperterrito: “Barcollo ma non Mollo” (non esiste che io possa dire “non ce la faccio”);
sebbene le nostre strade si siano divise, l’insegnamento che mi ha lasciato resta un punto fermo nella mia vita!
Iniziai ad avvicinarmi alle Spartan Race (gare ad ostacoli artificiali e naturali con distanze massime di 35km), così mi preparai e partecipai ad una di queste gare ad Orte.
Per me divennero una dipendenza: in 2 anni, ho partecipato a due Spartan Race, di cui un Campionato Mondiale Trifecta a Sparta, in Grecia (gara accessibile a chi ha concluso le distanze Sprint (10 km), Super (15km) e Beast (+di 22km) in un solo anno solare).
Feci circa 65km di corsa in due giorni tra ostacoli, lividi e burpees, tornai a casa a pezzi ma soddisfatto d’aver portato a termine gli obiettivi prefissi nel 2018, quando corsi la mezza maratona di Napoli 21,0975km.
Il Cammino di Santiago
Proprio adesso, mentre vi scrivo, ad accompagnare i miei pensieri c’è una canzone di Pino Daniele in sottofondo che si intitola “Viaggio senza ritorno”; questa mi rammenta di un altro episodio importante della mia vita: il Cammino di Santiago.
Proprio come dice il grande cantautore, il Cammino è un viaggio che comincia già prima della partenza e continua anche dopo aver raggiunto la meta.
Il viaggio che mi avrebbe portato a Santiago di Compostela (Galizia, Spagna) iniziò a Leon (in Francia) l’11 giugno, in compagnia di tre amici.
Giunti sul posto e pronti a cominciare quest’avventura (che attendevo con ansia ormai da parecchi mesi) incontrammo fin da subito tanti pellegrini, alcuni già in cammino da giorni, altri che, come noi, avevano scelto la città francese come punto di partenza del percorso.
Alessandra, Eleuteria, Marzia, Fabio, Lucia, Roberto, sono solo alcuni dei ragazzi con cui condividemmo non solo chilometri e fatica, ma anche tantissimi bei momenti, come quelli in cui confidammo le ragioni che ci avevano spinto fino a lì, delle emozioni che ci portavamo dentro e quelle che stavamo via via raccogliendo in ogni tappa del nostro viaggio.
Ogni «pit stop» nelle città che si trovano lungo il Cammino, rappresenta l’occasione per vivere una vera simbiosi con gli altri; si condividono i pasti, il sonno ed anche gli acciacchi dovuti al tanto camminare. Inoltre, ad ogni tappa bisogna aggiungere un “Sello” alla propria “Credenziale”: si tratta di un timbro che viene apposto su una specie di passaporto di cui ogni pellegrino è fornito e che ti permette di ricevere, giunti a Santiago, la “Compostela” (da cui prende il nome la città stessa), ossia una pergamena scritta in latino che attesta il compimento del Cammino, sia esso compiuto a piedi, a cavallo o in bicicletta.
Lungo il Cammino ho avuto l’occasione di incontrare persone provenienti da ogni parte del mondo e appartenenti a qualsiasi religione (penso a David, un ragazzo solitario che ancora oggi vive lungo il tragitto offrendo ai pellegrini cibo e acqua in cambio di una piccola offerta) ed ho attraversato luoghi che mi porterò sempre nel cuore.
Penso alla Cruz de Hierro (Croce di Ferro) o a Villa Franca del Bierzo, O Cebreiro, tappe obbligate per i pellegrini che si dirigono a Santiago de Compostela e che mi hanno regalato momenti indimenticabili in cui non sentivo neppure la fatica.
La Cruz de Hierro, ad esempio, è una croce risalente all’epoca dei Templari che sorge a 1500 metri; qui ogni pellegrino lascia una pietra che ha portato con sé fin dalla partenza e che simboleggia le difficoltà e la fatica del cammino.
Prima di partire pensai che la Sclerosi Multipla potesse fermarmi, soprattutto in aggiunta alle alte temperature, ma al contrario, a tenermi “a riposo” per un paio di giorni furono una vescica al piede ed una slogatura presa andando giù da O Cebreiro; slogatura di cui porto i segni ancora adesso, ma che non mi ha impedito di raggiungere la meta.
Il viaggio da Leon a Santiago ha richiesto un cammino diviso in circa 27 chilometri giornalieri, con in spalla uno zaino (la mia casa) dal peso di circa 9 chili, con tappe distanziate circa 32 chilometri l’una dall’altra.
Dopo essere caduto ed essermi imbottito di antidolorifici ho comunque continuato il percorso con determinazione; il Cammino di Santiago è un viaggio immersivo con sé stessi, in cui si impara ad affrontare ogni fatica, fisica ed emotiva.
Negli ultimi 4,7 chilometri che mi separavano dalla cattedrale di Santiago di Compostela mi sembrò di volare.
Lo zaino improvvisamente non ebbe più peso e nonostante il forte dolore alla caviglia, la voglia di stringere tra le mani quella pergamena mi spinse a non mollare.
Ricevere la Compostela per aver percorso 322 chilometri a piedi è proprio una bella emozione, così come è bello ritrovare gli altri pellegrini incontrati lungo il percorso e riabbracciarli sperando di rivederli ancora.
Ogni pellegrino durante il Cammino prova emozioni diverse, personali, intime, ma proprio come ho detto all’inizio, questo è un’esperienza che non si esaurisce con l’arrivo a Santiago perché è proprio da quel momento che comincia il vero percorso, quello che ti accompagna nella vita quotidiana.
Ad ogni modo, se ho potuto vivere tutto questo è anche grazie al supporto della mia famiglia e ai miei amici, i miei compagni di viaggio: Stefano, Luigi e Giovanni.
E voi, se potete, indossate le scarpe e camminate nei boschi tra le montagne.
Camminare in solitaria ed immersi nella natura è qualcosa che dona pace e tranquillità.
Atleta agonistico paralimpico
Un altro episodio interessante di cui voglio raccontarvi riguarda l’atletica; nel 2018 una società sportiva d’atleti paralimpici mi propose di diventare atleta agonistico.
Mi domandai
«Atleta agonistico paralimpico?? Chi io?? Ma siamo proprio sicuri? A volte non riesco nemmeno a camminare, figuriamoci a correre.»
Passarono i mesi e decisi di provarci.
Iniziai ad allenarmi in pista, era difficile imparare a correre come un’atleta agonistico, soprattutto con le scarpe chiodate, rispettare i tempi sul giro e non mollare durante gli allenamenti e le varie sessioni.
Il 2019 fu il primo anno di gare e raccolsi grandi soddisfazioni: fui Campione Italiano 2019 d’atletica leggera paralimpica sia sui 1500m, 800m e 400m.
Per il 2020 dovetti quindi decidere per quale distanza gareggiare e le mie scelte ricaddero sui 400m e 200m (mi piacque l’idea di diventare acerrimo nemico di Usain Bolt).
Gli allenamenti si fecero più intensi e purtroppo anche gli infortuni e la voglia di mollare.
Arrivò il momento fatidico nel Gennaio 2020, i Campionati Italiani d’atletica leggera paralimpica indoor ad Ancona; a causa di una piccola influenza non mi allenai per una settimana intera prima dell’inizio delle gare, nonostante tutto fui deciso e voglioso di lasciare un mio segno, sia sui 400 che sui 200.
Il giorno dei 400 mi presentai nella mia corsia la numero “3” con il pettorale numero 102.
Con il cuore a mille…
“Ai vostri posti…. Pronti… Bam!!!”
Le gambe andarono da sole, il respiro fu costante e non affannato, sentii solo le urla del mio coach e il rumore delle mie scarpe chiodate sulla pista.
Al termine della gara non potevo credere ai miei occhi, il cronometro segnò
“1:03:44” NUOVO RECORD ITALIANO 2020, 400m Indoor Categoria T38 (cerebrolesioni).
Sfortuna volle che passato il traguardo non riuscii più a camminare, a causa di un infortunio alla caviglia; il mio pensiero andò subito alla gara dei 200 che avrei dovuto tenere il mattino seguente, passai così una notte insonne per decidere o meno se gareggiare.
Il giorno dopo andai al palazzetto, ancora indeciso, ma dopo un po’ pensai che avrei buttato via mesi di allenamento e fatica se non avessi gareggiato, il tutto soltanto per circa trenta secondi di corsa!
Così mi presentai sulla griglia di partenza con a poca distanza il mio rivale migliore, l’allora detentore del titolo italiano, a cui avevo tolto il titolo sui 400 il giorno prima.
Al via la mia partenza fu lenta, per via della caviglia infortunata, ma riuscii comunque a superarlo in curva; Il cronometro segnò “28.96”, venti decimi in più rispetto al record italiano… ancora oggi non riesco a non pensare al risultato che avrei potuto ottenere con la caviglia a posto.
Non mollate. Mai.
Ebbene cari amici, nel raccontarvi brevemente la mia storia siamo arrivati al fatidico 2020, appena trascorso, che sia a causa della pandemia che di altri motivi che non sto qui a raccontarvi, mi ha visto fermo ai box da febbraio; adesso ho ripreso ad allenarmi in palestra, anzi a causa delle restrizioni, a casa.
In questa nostra chiacchierata vorrei lasciarvi un messaggio:
“Non mollate, mai!”.
Mettendosi in gioco, impegnandosi e non lasciando vincere la paura si possono ottenere risultati incredibili!
Ho trovato il mio carburante nell’attività fisica e da allora sono circa cinque anni che mi alleno senza sosta; tutto questo mi ha permesso di fare due volte il Cammino di Santiago, dodici Spartan Race e di partecipare ai campionati italiani di atletica!
La parola “malato” per me è sbagliata… è vero, ho la Sclerosi Multipla, ma la patologia non la subisco, la possiedo, è dentro di me e vive con me (anche se alcune volte la guerra è dura). Certo, l’ultima parola l’avrà sempre lei, ma qualche volta riesco a farle lo sgambetto, seppur in certi momenti sono stanco.
Avere la Sclerosi Multipla è stata, per me, anche una sorta di occasione che la vita mi ha dato per capire quanto le persone tengono a me; mi ha permesso di riconoscere e distinguere le persone che mi sono vicine da quelle false che, invece, si sono allontanate.
Purtroppo oggi tutto spaventa, figuriamoci una patologia autoimmune e invisibile che ci mette il suo zampino… così il “gioco” è fatto.
Succede anche questo quando si comunica a qualcuno d’avere questa patologia, ho visto persone correre via così veloci da mettere a rischio il record italiano in velocità che ho tanto faticato a raggiungere.
Ho visto persone accettare la mia patologia per poco tempo, vuoi per paura, vuoi per i sintomi invisibili che questa comporta, come la voglia di non far nulla, la spossatezza, la stanchezza dal primo mattino, il non saper descrivere il fastidio fisico che si prova… forse tutti questi sintomi hanno “spinto” queste persone ad allontanarsi, ma ciò nonostante non serbo rancori, farebbero stancare chiunque.
D’altronde devo conviverci con questa mia “amica” di sventura, ed è giusto che anche gli altri sappiano di questa patologia che porto con me.
Perché tenerla nascosta? Non riuscirò mai a capirlo.
Ma voi una Lamborghini la terreste nel garage??
Ciao,
Marco
2 commenti. Nuovo commento
Ogni persona porta con sé una storia: Marco è una di quelle storie che non immagineresti mai di sentire, perché Marco è pieno di vita! Umanamente, la sua presenza non può far altro che arricchire! Se solo il mondo fosse meno apparente….
Grazie per questa testimonianza bella,grintosa e positiva!
Marco ha il pieno rispetto di noi tutti!
Ci trovi assolutamente d’accordo con il tuo pensiero e credo fermamente che il mondo abbia bisogno della forza indiscussa di persone come lui.
Grazie a te per aver apprezzato la sua testimonianza.